L"ARTE": UN CONCETTO OCCIDENTALE
La definizione di arte su cui si basa questa tesi e in particolare l'intero capitolo "Tracce di sé", ha origine dall'etnocentrismo occidentale.
Questo paragrafo ha lo scopo di rammentare al lettore che le diverse realtà culturali appartenenti a epoche e a luoghi molteplici e differenti, sono inserite in universi simbolici distanti dal nostro e talvolta difficili da cogliere utilizzando le nostre categorie concettuali.
Secondo Roland Barthes “la narrazione è internazionale, transtorica, transculturale: essa è semplicemente lì come la vita stessa”
(Mantegazza, 1996, pag. 42), in effetti non facciamo altro che raccontarci agli altri e in ogni momento, questo dovrebbe darci l’idea della centralità di questa pratica umana, in quanto necessità. La narrazione ha consentito all’uomo di costruire significati e di condividerli con altri creando lentamente una cultura, essa è dunque diffusa in diverse misure tra la maggioranza dei popoli.
Il racconto permette di dare forma all’esperienza e di elaborarla a posteriori ricavandone sapere su se stessi, sugli altri e sul mondo, in un processo a spirale senza fine grazie al quale prendono forma tutte le cose di cui ci circondiamo.
Anche quella che noi occidentali chiamiamo “arte” possiede la caratteristica dell'universalità, è l’immagine, in particolare, che è sempre stata presente sin dalle origini dell’uomo e continua ad essere una costante della vita di tutti i popoli. Ogni cultura manifesta sistematicamente attraverso il simbolo ciò che essa necessita di comunicare: i suoi racconti, le sue credenze, gli enigmi e le paure. L’immagine è ciò che consente di rendere presente e visibile, l’invisibile a cui da sempre è rivolto il pensiero umano.
In realtà
la definizione occidentale di arte, quella che si deduce dalla storia lineare dell’arte, è valida per la nostra cultura, ma non è immediatamente estendibile ai prodotti e alle immagini di altre popolazioni nelle diverse epoche.
Il termine
“arte” si riferisce ad un concetto elaborato dal pensiero occidentale moderno, che attribuisce la definizione di “opera d’arte” a determinati oggetti e manifestazioni del lavoro e ingegno umano, secondo
specifici criteri.
Più precisamente, l’idea di artisticità che accompagna la nostra cultura è definita da una legge storica di raccolta e di connessione, che definisce le categorie entro le quali ordinare e classificare i prodotti dell’attività umana. È la
storia dell’arte scritta dai critici, dagli artisti e dai pensatori occidentali, che hanno definito di epoca in epoca, e di corrente in corrente, cosa sia l’arte.
Essa consiste dunque, a detta di noi occidentali, nell’esperienza umana della costruzione di
opere d’arte o opere con arte, pervase di significati simbolici che hanno da sempre riguardato temi come la vita e la morte, l’invisibile e il “mondo sopra il mondo”
(Formaggio, 1981, pag. 23).
Il pensiero occidentale definisce “arte” anche il prodotto dell’attività umana di popolazioni e culture profondamente diverse dalla propria. La
maschera rituale, i monili, il canto o la danza collettiva di questi popoli, sono stati inseriti nella categoria di “arte primitiva” o “arte popolare”, in realtà però “lo spessore di questi eventi è pressoché impenetrabile dalle nostre troppo recenti categorie”
(Formaggio, 1981, pag. 25); questi complessi
sistemi di comunicazione segnica, come le pitture rupestri o i graffiti risalenti al paleolitico, appartengono a un contesto culturale a noi in buona parte sconosciuto. La loro funzione infatti non è per noi di immediata comprensione, anche se sono stati compiuti diversi studi e ricerche etnografiche, dai quali possiamo intuirne il valore magico-religioso.
L’immagine è sempre stata presente in ogni società, in ogni tempo e in ogni cultura, si può pertanto azzardare a definirla una necessità ancestrale, legata all’idea di trascendenza.
Ma quale funzione essa svolge nelle diverse popolazioni?
Possiamo avanzare l’ipotesi che l'immagine sia essenzialmente un aspetto della vita umana e sociale e che possieda un valore magico, termine che rimanda all’esigenza innata dell’uomo di rivolgersi all’invisibile e all’extra-umano, nel tentativo di risolvere gli enigmi della vita e della morte; possiamo definire questo atteggiamento come sacro, religioso, rituale o mitico, a seconda dei tempi e delle culture. Ci riferiamo dunque al
valore simbolico dell’immagine che ha la facoltà di rendere visibile l’invisibile e che è legato al tema della morte e dell’assenza. Si può perciò supporre che gli uomini abbiano lasciato e continuino a lasciare
testimonianza di sé, attraverso segni e simboli che avrebbero attinenza con la religione e la magia, nel loro significato più ampio di sguardo verso la trascendenza e l’invisibile.
Numerose sono state dunque le teorie sull’origine dell’arte, ma spesso esse derivano da un punto di vista etnocentrico, che si serve delle proprie categorie concettuali per definire il fenomeno. Questa considerazione sulla funzione dell’immagine legata all’invisibile è infatti prodotta dai nostri costrutti teorici, ma dovremmo anche tener conto, per correttezza, del pensiero di altri popoli su questa attività umana che chiamiamo arte.
In oriente fino a tempi recenti l’arte non è mai stata considerata come una pratica eccezionale di espressione o come un settore specifico, essa è sempre stata
qualcosa di diffuso, una qualità di ogni gesto, atto, pensiero o esperienza.
Pensare all’oriente richiede infatti la capacità di entrare in “un sistema simbolico sconosciuto e interamente distaccato dal nostro”
(Barthes, 1984, pag. 5). Pensiamo a questo proposito al Giappone: l’estetica in questa terra è parte della vita e del suo fluire, come ci suggerisce Roland Barthes nel suo libro “L’impero dei segni”, ed è presente in ogni
esperienza, dalla preparazione del cibo, ai minimi gesti che richiede il gioco del pachinko, al minuto
pacchetto giapponese.
Sono quelli che egli nel suo libro chiama gli “incidenti” enunciati dagli Haiku, i quali trattengono una di queste
avventure (comportamenti consueti), offrendola alla lettura come “traccia, senza sbavature, senza margini, senza vibrazioni”
(Barthes, 1984, pag. 94).
Lo
haiku dunque, riporta nei tre versi che lo caratterizzano il modo grafico di esistere dei giapponesi, esso non contiene una profondità e non esprime l’interiorità di chi scrive, non ha la funzione che saremmo avvezzi ad attribuirgli,
lo haiku esiste e non ha finalità.
Questa è la sostanziale differenza che ci fa capire l’inadeguatezza delle nostre categorie nei confronti di quella che chiamiamo “arte giapponese”. Accontentiamoci perciò di leggere questi segni, senza la pretesa di interpretare o di scavare alla ricerca di significati.
Lo haiku è perciò un tratto, una “sorta di leggera cicatrice tracciata nel tempo”
(Barthes, 1984, pag. 97), la scrittura è
satori, (l’accadere zen) che provoca vuoto di parola, cui non possiamo certamente far coincidere la nostra
teoria del simbolico, che apre alla molteplicità dei significati e all’invisibile; qui siamo di fronte all’
esenzione del senso, dove il commento o l’interpretazione è reso impossibile. Lo
haiku è dunque una maniera (estetica) di usare il pensiero, in grado di trasformare un evento qualsiasi nel punto focale dell’universo
(Adultità n. 19, aprile 2004, pag. 99).
Questa digressione sull'arte giapponese mi ha permesso di dimostrare che l'etnocentrismo occidentale ha definito "arte" i segni e l'estetica appartenenti a culture diverse dalla propria, talvolta in modo azzardato.