EDUCAZIONE INTERIORE
In questo paragrafo si racconta dell'interiorità secondo la concezione occidentale. Ognuno di noi è ciò cui ha saputo dar forma, sempre grazie al rispecchiamento nell’altro e in rapporto col mondo esterno.
Siamo un’interiorità, un luogo nostro, unico e privato, che risiede in noi, anche se non sappiamo dove si trovi esattamente; siamo un “io” che sentiamo di avere dentro, e che abbiamo coltivato fino ad ora e continuiamo a coltivare avendo sempre più la certezza della sua e insieme nostra esistenza. Siamo “io” e siamo complessivamente anche “lei”, la nostra interiorità, anche se non abbiamo ancora le parole per descriverla.
Sappiamo che ci sono delle “cose” che costituiscono la nostra vita interiore, come se essa fosse un contenitore di oggetti solo nostri, incastonati all’interno delle nostre pareti cerebrali a tal punto da non averne un’idea molto precisa, o perlomeno non ancora.
La nostra mente ci consente di pensarci dentro, senza permetterci però di farlo completamente, c’è una parte di noi che ci sfugge, c’è qualcosa che seppur scavando, non riusciamo a dissotterrare. Ne cerchiamo la collocazione sui libri di anatomia ma nessuna tavola è in grado soddisfare le nostre domande.
Sappiamo però con certezza di averla dentro, la nostra mente è capace di ragionare su se stessa e di interrogarsi sui misteri che la costituiscono, ha la versatilità per guardarsi e riguardarsi, per percepirsi e sentirsi viva; è intenzione pura e le possibilità che si diramano da essa sembrano essere infinite, in contrasto con la nostra finitezza corporale.
Ci chiediamo dunque se questa dimensione intima non possa trovarsi invece altrove, nella nostra umile e mortale
materialità, nel pulsare sanguigno del cuore, cucita nelle sue pareti spugnose e carnose da chissà quale divinità superiore, oppure nell’intreccio di strati che avvolgono il nostro stomaco, lì cicatrizzata prima che potessimo averne coscienza.
Destinati a guardarci senza poter scorgere in noi alcun segno di una reale presenza corporea di ciò che ci riempie, ci convinciamo che questa nostra anima sia un’entità invisibile. Sicuri del suo essere reale, ci arrendiamo all’intangibile inghiottendo le sagge parole di Merleau-Ponty “L’invisibile è là senza essere oggetto”.
Che cos’è dunque questa dimensione così sentita? È tutto ciò che noi siamo, è il pensiero che da sempre ci accompagna senza che possiamo almeno per un attimo svuotare la mente, è il sogno e gli interrogativi che esso suscita, è
il ricordo, limpida conferma di ciò che siamo stati e per questo siamo. Ma non solo, essa è primariamente il nostro
esserci, il nostro essere presenti a noi stessi e poi al mondo, la prova del nostro vivere e lottare incessantemente con il caos, fino a quando non dovremo arrenderci all’insondabile; consci che esso fa parte del nostro vivere quotidiano, costantemente prepariamo un pezzetto di quel
pacchetto fatto di noi stessi da lasciare qui, affinché qualcuno un giorno racconti di noi.
La nostra finitezza si relaziona abitualmente con l’oltre, con l’inconoscibile futuro in cui deponiamo la speranza che in qualche modo potremo esserci ancora. Il nostro intimo dialoga con la morte ogni giorno, cercando un compromesso per poter essere ancora.
Ciò che ci compone inoltre, sono i vissuti che si intrecciano rincorrendosi nella nostra mente, ordinati in spazi e categorie create appositamente per loro nel grande archivio della memoria, la nostra mente li elabora continuamente, propinandocene una dose in ogni istante, nella veglia e nel
sonno, senza che possiamo sempre comprenderne il significato. Ma siamo essenzialmente riflessivi e quindi l’esperienza che abbiamo vissuto ritorna in noi costantemente e noi continuiamo a pensarla, ognuna per il tempo che abbiamo deciso di dedicarle. Tutto quello che viviamo ci entra dentro divenendo parte di quel magma immateriale che costituisce la nostra interiorità.
Ognuno di noi è un
essere unico perché caratterizzato da questa entità impalpabile e da esperienze inevitabilmente irripetibili che intessono la propria storia personale, fatta di vita interiore e di vicende vissute all’esterno di sé, in un punto del mondo, a contatto con la società che ha visto la nostra nascita.
Siamo sì dei punti in un universo che ancora sovrasta il nostro umile intelletto, ma dei punti senza uguali, con storia ed emozioni non ristampabili.
Ciò che ci fa assomigliare gli uni agli altri è l’imperfezione della corporeità che ogni giorno ci ricorda che abbiamo un traguardo davanti a noi anche se non abbiamo la possibilità di scorgerlo; la nostra supposta immortalità è l’illusione che ci accompagna nel nostro impacchettare
pezzi di noi da lasciare a chi verrà. Ci piace preparare oggetti, scritti, perfino opere di grande rilievo, che facciano le nostre veci in un futuro che non ci apparterrà; dedichiamo il nostro tempo a questo scopo, spesso inconsapevolmente, mettendo continuamente nelle mani del mondo pezzi di quello che siamo, nella speranza che domani qualcuno possa custodirci nella sua interiorità.
Questo discorso sull’interiorità porta necessariamente al
rapporto con l’altro, più ci coltiviamo interiormente e più sentiamo che tutto ciò che facciamo è destinato a qualcun altro al di fuori di noi, ci accorgiamo che l’interiorità da sola non basta, curiamo noi stessi ma ci sentiamo insufficienti; la presenza dell’altro è indispensabile per noi, abbiamo bisogno di relazionarci ai nostri contemporanei, volgendoci verso i posteri, non dimenticando chi ha vissuto nel passato cessando ad un certo punto di esistere.
Ci curiamo di noi stessi e insieme ci curiamo degli altri, partecipi a loro volta della nostra cura; ricerchiamo la nostra interiorità mentre cerchiamo di intuire quella altrui, necessariamente differente da quello che siamo, ma comunque sempre indagata e rispettata.