5.3 Narrazione e arte
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GLI STRUMENTI DEL SIMBOLICO
Implicita nella tecnica autobiografica è l'esigenza di lasciare una traccia di sé.
Secondo questa tesi essa è dunque presente in ogni creazione umana, dalla fotografia, agli oggetti di uso comune, dall'artigianato all'opera d'arte; è inoltre contenuta in ogni azione umana, prima tra tutte quella educativa.


Abbiamo già analizzato la pratica della scrittura di sé e le sue proprietà curative e relazionali, sviluppando il tema della necessità umana di lasciare una traccia di sé nel mondo; questa trova forma nella Cap. 4.2 produzione autobiografica scritta in previsione di futuri lettori, allo scopo di raccontare loro la propria esistenza. La scrittura di sé si inserisce perciò a buon merito in quelle pratiche volte a realizzare il desiderio e il bisogno di vivere ancora dopo la dipartita terrena.
Accanto ad essa troviamo Cap. 5.2 la fotografia, molte volte scattata proprio con questo intento, nel tentativo di inseguire la vita che sfugge da “chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse esistito” (Calvino, 1978, pag. 37); secondo questa visione quanti più istanti della nostra esistenza riusciamo ad immortalare, tanto più saremo sicuri che un domani qualcuno, aprendo un cassetto oppure un file conservato in un cd, guarderà una delle nostre ormai datate fotografie raccontando di noi.
Proprio come accade per le fotografie mostrate da Boltanski nelle sue istallazioni, la loro visione suscita in noi interrogativi e riflessioni riguardo quegli individui sconosciuti, che grazie all’intenzione dell’artista sono rimaste e rimarranno nella memoria dei fruitori.
Lo scopo di Boltanski è infatti quello di consentire a quelle vite di essere ricordate in quanto, secondo il suo pensiero, esse acquisiscono così il valore proprio e unico dell’esistenza, che andrebbe perduto per sempre se nessuno raccontasse più di loro. È quindi una Cap. 5.4.1 lotta contro l’oblio, per poter in qualche modo fermare il tempo e concedere una nuova esistenza a questi singoli ignoti, attraverso la fotografia che stimola narrazione e riflessione.
La fotografia ci assicura dunque di poter restare qui, almeno fino a quando anch’essa si depaupererà opponendo resistenza anche alla più innovativa tecnica di restauro. Ma non scompariremo definitivamente fino a quando qualcuno parlerà ancora di noi, citando un episodio della nostra vita o mostrando un’immagine che delinei ancora la nostra figura. Cap. 4.1.2 La vita è di grande importanza anche quando di breve durata; ogni azione, ogni pensiero o riflessione propria di una persona è degna di essere ricordata, poichè si inserisce nel grande racconto di ciò che è o sarà stato l’essere umano, in testimonianza della sua straordinaria complessità.
Questa necessità fa parte di noi e secondo questa visione ogni cosa di cui amiamo attorniarci, ogni libro e ogni oggetto esito delle nostre scelte, racchiude un racconto, una motivazione che parla di noi.
La nostra stessa casa è un contenitore di “pezzi di vita” che qualcuno un giorno potrebbe interrogare per conoscere la nostra storia. I nostri oggetti comunicano di noi senza che che ci sia bisogno di proferire parole.
La memoria sedimenta nella casa e negli oggetti che costituiscono il suo arredo, ogni oggetto che possediamo ha una sua storia che racconta anche di noi, è la storia della sua fattura, contenuta nelle proprietà del materiale; un oggetto artigianale racchiude invece la storia delle mani che lo hanno plasmato, del calore che è servito a forgiarlo, dell’intenzione e della passione che lo hanno fortemente e faticosamente voluto. La cosa poi perviene a noi per varie strade, ci parla allora della via che ha percorso per arrivare nella nostra casa, delle mani che l’hanno portata e spostata prima che ci incontrasse, del desiderio di donare della persona che l’ha regalata o della voglia di sbarazzarsene di un negoziante incurante del suo valore. Ogni cosa infatti ha una motivazione perché creata con uno scopo e un’intenzione, essa in quanto portatrice di memoria si avvicina all’invisibile e sta a noi saper vedere impiegando grande sensibilità per saperlo cogliere, infatti: “le cose riappaiono nella scia dell’istante, come oggetti della memoria che fanno ritorno dalla lontananza, dall’invisibile, dischiudendo la loro opacità ad un’esistenza più spirituale” (Concato, 2001, pag. 169).
Nella realtà contemporanea viviamo tra cose prodotte in serie che sono sostituibili e che perdono quell’aura di memoria di cui sono dotate le cose del passato o le cose artigianali. Sono invece anonime, prive di quell’interiorità che le legava all’invisibile, non narrano più una storia, non rappresentano dei vissuti, sono invece utensili fatti per durare affinché noi li usiamo fino a quando servono, per poi essere sostituiti da altri.
Chi è consapevole di questo sa ancora fare esperienza delle cose, ma in segno nostalgico, in una realtà dove l’atrofia progressiva dell’esperienza è determinata dal “declino di una modalità di relazione, tra il soggetto e il mondo, centrata sull’incontro di interiorità e sulla capacità di riflessione e comunicazione narrativa sui fatti della vita” (Concato, 2001, pag. 16). C’è quindi il bisogno secondo Concato, di recuperare “la familiarità e l’intimità con le cose, la percezione di esse come contenitori di memoria, tramiti tangibili con il passato e la tradizione; il valore d’uso, cioè il senso della loro insostituibilità per l’attività umana; la traccia che esse conservano della materia e della natura di cui sono fatte, del lavoro che le ha create” (Concato, 2001, pag. 21), tutto questo rischia di perdersi di fronte al loro valore in denaro e al valore di scambio.
Tuttavia se sappiamo vedere, gli oggetti di cui siamo attorniati sono ancora portatori di una storia e di un vissuto, benché pochi di essi siano artigianali in senso stretto.
Sono allora “specchi del nostro modo di essere tra loro” (Concato, 2001, pag. 273), ci sovvengono alla mente episodi e gesti che ci riportano al tempo e al modo in cui la singola cosa ci è pervenuta e alle persone con cui l’abbiamo condivisa, che in qualche modo hanno fatto parte della storia di quell’oggetto e della nostra.
Tutto ciò assume maggiore significato quando gli oggetti sono il prodotto del lavoro manuale di un artigiano, della passione di una persona che li ha costruiti con grande motivazione, con lo scopo di donarli ad un altro o di crearli per se stesso.
Il senso e il valore di questi manufatti, avvicina moltissimo la cosa alla scultura, rendendola un oggetto unico e nello stesso tempo di uso comune, un oggetto dotato di un’identità specifica proprio perché creato ad uno scopo preciso; esso diventa parte dell’ambiente domestico e della normale vita quotidiana, acquistando un significato diverso da un qualsiasi oggetto prodotto in serie da uno stampo.
Possiamo distinguere allora tra due tipi di "cose": gli oggetti dell’artigianato che portano in sé la traccia della loro materialità fatta forma e dell’intenzione di chi le ha volute, nonché la storia di come esse siano arrivate fino a noi; ci sono poi i prodotti dell’industria, che abitualmente ci circondano, che abbiamo comperato o ci sono stati donate e di cui ci serviamo. In realtà contengono anch’essi una memoria e se sappiamo fermarci a guardarli standogli vicino, la sapremo percepire lasciandoci trasportare dal vagare della mente, così come ci chiede Concato: nell’intento di tornare a fare reale esperienza delle cose in modo che ritornino ad essere “cose intime che rammentavano i legami col passato”. (Concato, 2001, pag. 17)
Egli sostiene inoltre che il poeta e l’artista in genere, siano gli unici che ancora possono riconoscere il valore delle cose, prima che esse diventino definitivamente, parafrasando Rilke, “apparenze di cose, parvenze della vita” (Concato, 2001, pag. 20), nel processo di atrofia dell’esperienza parallelo all’espansione dell’economia di mercato.
Concato vede nell’arte la modalità di pensiero che è in grado di percepire ancora alcuni aspetti dello sfondo e della forma di una cultura, che altrimenti non sarebbero immediatamente riconoscibili, e di restituirli sotto forma di simbolo.
L’oggetto d’arte è allora mediazione tra l’interiorità che l’autore definisce l’invisibile, e la visibilità; l’arte sarebbe perciò, una modalità privilegiata per parlare alle menti e agli Cap. 4.1 stomaci delle persone, sensibilizzandole su determinati temi che le riguardano allo scopo di stimolare riflessioni, assaporando un modo di fare esperienza del mondo.
Le cose dunque parlano di noi, così come la fotografia illuminata dalla flebile lampadina di Boltanski ci parla dell’individuo che un giorno ha impressionato quella carta termica, ma anche come il Coco de Mer e il Cocotier i due alberi piantati da Beuys alle Seychelles, parlano dell’artista e del suo importante pensiero. Gli oggetti, le cose che noi creiamo, le azioni cui diamo vita e che intenzionalmente volgiamo all’altro e al mondo, raccontano necessariamente quello che siamo e quello che abbiamo voluto essere nelle tante circostanze che la vita crea.
Anche l’educatore come l’artista, l’artigiano e la persona che crea, con le sue azioni produce cambiamento e così queste ultime parleranno di lui. Intenzionalmente o meno, dunque, raccontiamo di noi anche attraverso queste “cose” lasciando agli altri un pezzetto di quello che siamo, che essi porteranno con sé tenendolo vivo, narrando di noi.
Lasciamo dunque inevitabilmente tracce dietro al nostro passaggio che ci danno la garanzia che non saremo mai (?) dimenticati. È in fondo questo quello che ciascuno di noi desidera, Cap. 5.4 perpetuare la propria esistenza perché essa è portatrice di un significato unico che vorremmo si tramandasse infinitamente, almeno nelle menti e nei pensieri delle persone di cui amiamo circondarci. L’educatore poi spera che questa traccia possa portare al miglioramento del benessere di un altro, auspicando che il suo fare e agire trovi significato in questo scopo. Tutto ciò alla luce della grande importanza che assume l’esistenza del Cap. 4.1.2 singolo individuo, in quanto depositario di una storia senza eguali, scaturita dall’intreccio contingente di episodi, incontri, intenzioni, scelte e cambiamenti, che ne qualificano l’unicità.
Narrare di sé allora non è soltanto prerogativa di una scrittura autobiografica ma è una pratica assolta da diversi oggetti: i manufatti, le cose contenute in quella grande fonte autobiografica che è la nostra casa, le fotografie, le opere d’arte, gli oggetti artigianali, ma anche le nostre azioni, le parole e i messaggi che vogliamo dare agli altri, il nostro pensiero, le intenzioni e gli Cap. 6.2 interventi educativi.


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